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Pittella: "Il patto di stabilità ci tarpa le ali una deroga è l'unico antidoto alla crisi"
Articolo del 28/02/14 tratto dal sito del PD nazionale (fonte: IlMattino).

«Il Pd sempre più vicino al Pse, un gran bel traguardo. Tra l`altro è una delle ragioni per le quali ho appoggiato Renzi...anche lui come me ci ha sempre creduto» confessa Gianni Pittella, vice presidente del Parlamento Europeo.

E lo scambio per così dire vivace tra D`Alema e Fioroni?

«Posizione minoritaria quella di Fioroni. E poi quale era la sua alternativa? La solitudine?».

Per molti analisti però l`Ue è vista come una palla al piede dello sviluppo italiano...

«L`Unione Europea di oggi è quella dei banchieri, delle lobbies e dell`austerità. Tutte caratteristiche che vanno affrontate e cambiate alla svelta. L`unica logica che deve regolare il mercato globale deve essere quella della coesione, non certo dell`isolazionismo. Dal primo luglio l`Italia gestirà il semestre europeo e allora saremo ancora di più nella vetrina internazionale».

In teoria sembra facile. Ma in pratica?

«Il cammino è tracciato: revisione del patto di stabilità nel medio periodo; più flessibilità negli investimenti in grado di poter rilanciare l`economia e creare posti di lavoro; eurobond per mutualizzare il debito; trasformazione della Banca Centrale Europea in prestatrice di ultima istanza e infine tassazione delle rendite finanziarie. Certo, la riduzione del debito è prioritaria, ma deve essere accompagnata dalla flessibilità del patto di stabilità».

Ma come è possibile agire sul tetto del 3%?

«Nel medio termine si può intervenire. Ci vuole un`operazione come quella che è stata fatta con Francia e Germania. Intendo dire, basterebbe concederci un tempo limitato di deroga di questo paletto, una sorta di sospensione, per permetterci di mettere in campo politiche di crescita, di riassetto e difesa del territorio, con un serio piano di occupazione giovanile. Tutti interventi prioritari se si intende rimettere in moto il Paese. Insomma, dobbiamo andare a Bruxelles e dire: abbiamo fatto i compiti a casa, siamo stati bravi, abbiamo i conti in ordine oltre ad un premier giovane e determinato, dunque concedeteci una sorta congelamento temporaneo del tetto del 3%».

Intanto l`Italia continua a non saper spendere i fondi elargiti da Bruxelles...

«Il capitolo dei finanziamenti strutturali è sicuramente un nodo importantissimo per lo sviluppo di tutte le regioni, non solo del Meridione. Il problema però è che per troppo tempo da un lato, le condizioni del patto di stabilità interno che hanno fatto da freno e le logiche assistenziali e di clientele dall`altro, hanno trasformato l`occasione-fondi, in un flop».

E allora, come è possibile all`improvviso diventare bravi e giudiziosi?

«Ci saranno sul tavolo 30 miliardi di fondi targati Bruxelles per le regioni dell`Unione Europea. Un`occasione che stavolta non si può davvero sprecare. Ecco perché bisogna prepararsi a saperli usare bene. E per far questo va tolto dal patto di stabilità interno il cofinanziamento delle risorse europee; va strutturata la cabina di regia nazionale concentrando la spesa su pochi obiettivi prioritari: dalle infrastrutture, alla formazione, fino all`energia. Senza tralasciare però il riassetto della pubblica amministrazione».


Jobs Act, cinque mosse per lo choc
La riforma del lavoro è un tema ampio e complesso ma poche decisioni basterebbero per dare la scossa.
Articolo del 08/03/14 tratto dal sito del PD Nazionale (fonte: EuropaQuotidiano).

I temi del Jobs Act sono molti e di diverso peso. Mi concentro su 5 punti che basterebbero a dare lo choc al mercato del lavoro di cui parla Matteo. Anzitutto le misure devono essere concentrate e consistenti. A cominciare dalla riduzione del cuneo fiscale. Lo sottolinea anche il ministro Padoan. Gli interventi sugli ammortizzatori sociali, andranno estesi per coprire i soggetti finora esclusi (o quasi): collaboratori e lavoratori economicamente dipendenti.

Su questo punto il lavoro preparatorio sull’estensione dell’indennità di disoccupazione, Aspi e mini Aspi, mi sembra a buon punto e presenta costi non proibitivi. Per avvicinarci all’Europa servono meno casse integrazioni a lungo termine, spesso per imprese decotte, e più sostegno ai disoccupati. Ma per essere europei occorre che gli ammortizzatori sociali siano accompagnati da efficaci politiche attive.

Qui non servono tanto nuove leggi, ma interventi operativi. È decisivo rafforzare il sistema dei servizi all’impiego. Non si può abbandonarli perché non funzionano. Il loro ruolo resta importante in tutti i paesi, anche nella liberista Gran Bretagna. Ma vanno fatti diventare dei veri job centre capaci di leggere il mercato del lavoro e le esigenze delle imprese. Il personale deve essere riqualificato, con competenze adeguate, non solo amministrative come è oggi. Va impegnato su obiettivi precisi e compensato adeguatamente anche sulla base dei risultati: qualità delle offerte di lavoro, dipendente e autonomo, ed effettivi placement, come si fa in altri paesi sia per gli operatori pubblici che per i privati.

Le strutture pubbliche e private devono collaborare sulla base di intese precise; possono essere messi in concorrenza fra loro, ma con regole e risorse pari. Per questo anche il numero delle persone addette ai centri pubblici va rafforzato. Non si può immaginare di assumere le decine di migliaia di dipendenti attivi in Germania e Francia. Ma i meno di 9000 operatori italiani non possono far fronte a 3 milioni di disoccupati. Ho già proposto da tempo, e vedo che altri concordano, di impiegare in questi servizi almeno una parte dei lavoratori pubblici in mobilità, previa la necessaria formazione. A questi si potrebbe aggiungere una task force di giovani, impiegati a termine come tutor, per svolgere le attività fondamentali di sostegno all’occupazione; e si potrebbero impiegare meglio gli attuali dipendenti di Italia lavoro e Isfol.

Questi nuovi addetti dovrebbero servire anzitutto per far partire la garanzia giovani. L’occasione non può essere persa. Le risorse non irrilevanti messe a disposizione dall’Europa andrebbero concentrate sugli obiettivi essenziali, invece di disperderli in mille rivoli.

La proposta di Renzi di istituire una Agenzia federale del lavoro va bene se serve a guidare veramente il sistema ora disperso e se unifica le funzioni di servizi all’impiego con quelle di gestione degli ammortizzatori. Solo così si può rendere effettiva quella condizionalità che oggi è scritta solo sulla carta. I centri per l’impiego saranno utili e frequentati solo se sapranno offrire servizi veri e attivare sanzioni per chi non accetta le offerte.

L’Agenzia non deve essere un altro carrozzone, ma una struttura efficiente, anche unificandola con Italia lavoro.

Un altro capitolo su cui deve concentrarsi il Jobs Act riguarda le semplificazioni. Anzitutto la semplificazione delle procedure e della miriadi di adempimenti che affliggono imprese e lavoratori. Si può fare molto senza guerre ideologiche: unificare le comunicazioni alle pubbliche amministrazioni, ora ripetitive, abolire l’obbligo di fornire dati e documenti già in possesso delle amministrazioni, informatizzare le comunicazioni abolendo documenti cartacei; introdurre uno sportello unificato, come gli one stop shop attivi in altri paesi, presso il quale svolgere tutte gli adempimenti connessi al rapporto di lavoro. Il successo dello sportello dipende anche qui non solo dalle norme, ma da un efficiente organizzazione del back office che sappia rispondere alle domande.

Altra cosa è la revisione e semplificazione delle norme del diritto del lavoro sostanziale. Non si può pensare di ridurre tutto a pochi articoli. Più realistico è procedere per singoli settori e testi unici, come già avvenuto per la sicurezza del lavoro e apprendistato, coinvolgendo gli operatori interessati.
Importante è la semplificazione e l’efficientamento delle procedure processuali a cominciare dalla abolizione del rito Fornero introdotto dalla legge 92/2012.

Un tema critico su cui esistono posizioni politiche diverse riguarda il numero e i tipi di contratti. Penso che Matteo dovrebbe semplificare anche qui. I contratti che servono non sono più di 4-5. La proposta del contratto di inserimento a tutele crescenti può essere utile a facilitare il primo accesso al mercato del lavoro di giovani e di disoccupati di lunga durata. Ma se non si vuole cannibalizzare l’apprendistato questo deve essere semplificato e riqualificato: attivare veramente quello di primo livello in alternanza scuola lavoro, alla tedesca; rafforzare la formazione di quello professionalizzante, non con vincoli formali ma con contenuti certificati. Così i due contratti si possono caratterizzare diversamente : il contratto di inserimento per la sua flessibilità l’apprendistato per una vera finalità formativa.

Anche il contratto a termine e parallelamente la somministrazione possono essere semplificati senza incentivare la precarietà. Le causali sono fonte di contenzioso più che garanzia di protezione. È più tutelante fissare un tetto quantitativo massimo del 15% modificabile dai contratti e confermare il limite temporale di 36 mesi.
Un’altra importante semplificazione riguarda le varie forme di lavoro cosiddetto atipico. Tutti i lavori di breve durata ora regolati in modo complicato (accessorio, intermittente), si possono unificare prevedendo che siano pagati in voucher di valore predefinito, comprensivi di contributi, entro un limite massimo di reddito (8000, 10000 annui, come si fa in Germania).

Penso infine che vadano abrogati i contratti a progetto e le cosiddette partite Iva, anch’essi fonte più di complicazione che di tutela. Restano le collaborazioni, che vanno definite meglio come lavori economicamente dipendenti e sostenute con tutele di base, già ipotizzate in alcuni ddl.

Fra queste tutele di base acquista oggi una importanza essenziale il salario minimo legale; non solo per i collaboratori ma per tanti lavoratori poveri. Le esitazioni anche dei sindacati non hanno più ragione di essere, perché le tutele contrattuali non bastano. Un salario legale di base può sostenere, non deprimere la stessa contrattazione. Ormai lo sta adottando anche la Germania che era l’unico grande paese con noi a non averlo.

I temi del Jobs Act, pur diversi, devono convergere su pochi obiettivi fondamentali: semplificazione e alleggerimento del peso fiscale e burocratico su lavoro e imprese, tutele universali di salario e di welfare, politiche attive del lavoro. Le resistenze a innovare su questi punti sono forti, cementate dal tempo, dalle ideologie, e dalle inerzie politiche e amministrative. Lo choc di Matteo è chiamato a rompere questi muri.


Poletti: "Segnale di svolta che aiuta il lavoro".
Articolo del 14/03/14 dal sito del PD Nazionale (fonte: L'Unità).

Ministro Poletti, nei giorni scorsi in molti la descrivevano come mero esecutore delle volontà di professori e spin dottor vicini al premier. Lei invece ha dimostrato di avere la partita in mano, per esempio scegliendo di intervenire per decreto e lasciando sullo sfondo il contratto unico. Come ha convinto Matteo Renzi?

«Le scelte che abbiamo fatto sono in linea con l`orientamento generale e il Jobs act. E quindi nessun problema con Renzi. Zero problemi anche sul piano politico con le forze di maggioranza che infatti danno tutte un giudizio positivo sulle misure prese».

Entriamo nel merito dei provvedimenti. Un decreto per allungare i contratti a termine e semplificare l`apprendistato - il cavallo di battaglia rivelatosi fallimentare di Elsa Fornero. Perché questa scelta?

«Perché queste tipologie rappresentano quasi il 70% degli avviamenti al lavoro, sono di gran lunga le più usate dalle imprese. Il contratto a termine rappresenta il 58% ed aveva una problematicità forte sulla causale: si è dimostrato in questi anni che è complicato definirla e che ciò produceva la maggior parte delle cause di lavoro. L`incertezza portava le imprese a non confermare i lavoratori, soprattutto giovani, a non rinnovare i loro contratti, a cambiare lavoratori. Ora noi consentiamo alle imprese di avere lo stesso lavoratore per 3 anni a fare lo stesso lavoro. E pensiamo che sia il modo migliore perché poi sia stabilizzato, senza invece imporlo con norme che avevano l`effetto opposto: mandavano i lavoratori a casa. L`apprendistato invece rappresenta il 10% degli avviamenti e anche qui le norme andavano rese meno farraginose».

La Cgil parla di flessibilità eccessiva. Non le sembra che tre anni siano quasi un contratto a vita? E che pagare un apprendista il 35 per cento di quanto percepisce un lavoratore nella stessa impresa sia un po` poco?

«Guardi, sull`apprendistato il 35 per cento riguarda solo l`obbligo formativo per le imprese e cioè una quantità modestissima sul totale e numeri banali. Sui 36 mesi del contratto a tempo credo che paradossalmente era la norma precedente ad essere destabilizzante per le imprese. In questo modo invece l`impresa viene incentivata a stabilizzare - non a rendere flessibile - il lavoratore perché lo ha formato, conosciuto, valutato per 3 anni e ha tutto l`interesse a tenerlo con sé».

Possiamo quantificare gli effetti che vi aspettate sulla riduzione della disoccupazione, specialmente giovanile?

«Ci aspettiamo effetti significati a breve. Perché nell`insieme delle norme decise ieri - dal taglio del cuneo Irpef e Irap al pagamento integrale dei debiti della Pa, gli investimenti sulla scuola, la cura del territorio - pensiamo di aver dato il segnale che l`Italia stia effettivamente svoltando e che le imprese possano decidere un giorno prima di fare un`assunzione. Non siamo in grado di fare valutazioni numeriche anche perché le statistiche per esempio ci dicono che ogni anno ci sono 2,5 milioni di contratti, di avviamenti al lavoro. Ma si tratta di lavoratori che entrano e escono: c`è un gran viaggiare nel nostro mercato del lavoro ma non ci sono molti nuovi posti per i giovani. Per questo ci siamo affidati alla nostra razionalità, alla nostra conoscenza del mercato del lavoro e alle logiche imprenditoriali. E crediamo di aver fatto bene».

Passiamo al disegno di legge delega. Sei mesi per scrivere un Codice del lavoro semplificato. Lo strumento piace alle parti sociali perché - dicono - permetterà il confronto. Ma ci sarà?

«Certo, lo abbiamo dimostrato anche con questi provvedimenti. È quasi un`ovvietà, ma lo ribadiamo se serve: credo sia giusto ascoltare, analizzare e tenere in considerazione le opinioni di tutti. Le parti sociali - imprese e sindacati - sono fondamentali. Ma non solo, in Italia sul tema del lavoro abbiamo grandi intelligenze in campo: giuslavoristi e esperti. Noi ascoltiamo, poi - come per questo Consiglio dei ministri - quando tocca a noi prendiamo le decisioni che ci sembrano giuste. Questa è la normale dialettica sociale».

La concertazione era altro: confronto e poi sintesi condivisa. L`avete rottamata?

«Mi pare che la concertazione sia stata già superata nei fatti. E i commenti positivi delle parti sociali sui nostri provvedimenti lo dimostrano».

Il nuovo codice del lavoro ridurrà la giungla di contratti esistenti? La Cgil ne misura 46, le imprese 15. Chi ha ragione? Quanti ne rimarranno?

«Non diamo i numeri! Alcune normative contrattuali sono specificazioni settoriali. Sono contratti o no? È difficile rispondere. Non credo serva una guerra dei numeri. Noi facciamo un ragionamento mirato su ciò che è indispensabile e utile per avere un buon mercato del lavoro che funzioni. È sicuramente vero che ci sono troppe forme contrattuali e che serva una semplificazione. Nel nuovo codice terremo le forme utili e caveremo quelle che non lo sono per una visione misurata ma moderna del mondo del lavoro».

Spostiamoci al capitolo ammortizzatori e partiamo dell`attualità. Lei ha rilanciato l`allarme dei sindacati: sulla cassa in deroga che ieri ha registrato un boom: più 55% per il 2014 manca almeno un miliardo. Li ha già chiesti a Padoan?

«No, al Consiglio dei ministri non se n`è parlato. È un tema che ci è stato rappresentato ed è reale: nel 2013 sulla Cig in deroga sono stati messi 2,5 milardi. Se la richiesta sarà come l`altro anno agli 1,6 miliardi già stanziati manca un miliardo. Vedremo come reperirli».

La Cassa in deroga però dovrebbe sparire solo nel 2016: pensa di anticipare i tempi? Lei mercoledì ha fatto capire che preferisce i contratti di solidarietà alla cig e di non voler «lasciare a casa le persone senza far niente». Ma la cassa integrazione è una particolarità italiana che funziona: lega i lavoratori ai loro posti di lavoro.

«Un eventuale anticipo lo decideremo con la delega. Abbiamo ribadito che rimangono cassa integrazione orctinana e straordinaria. Però io ho posto un tema: oggi ci sono lavoratori legati per anni ad imprese che non esisto già più. In questo senso con gradualità, tutele e garanzie cercheremo di modificare questa situazione. Sapendo però che dietro ai numeri ci sono lavoratori, persone, famiglie e tutto va fatto nel loro pieno rispetto».

La delega prevede l`allargamento dell`Aspi ai precari. Pensate solo ai co.co. pro? E le partite Iva? La riforma sarà a saldo zero?

«Le partite Iva formalmente sono lavoratori autonomi, imprenditori di se stessi. Al momento non possiamo tutelarli. I co. co.pro. sono la categoria di gran lunga più grande fra i precari e tutelarli è un grande passo avanti. Noi ad oggi pensiamo che potremo farlo a saldo zero. Poi se si deciderà di allargare la tutela ad altre categorie, vedremo come finanziarlo».


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